di Simone D’Adamo
Ad un anno dall’insediamento di Valeria Fedeli ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, del governo Gentiloni, sembra doveroso vedere i risultati delle manovre e delle riforme attuate dall’ex sindacalista. Un’analisi che tenga conto anche di chi l’aveva preceduta, delle polemiche e del favore-sfavore degli insegnanti.
Fin dalle primissime riunioni del nuovo dicastero, la ministra si è trovata ad affrontare molte “patate bollenti” tra cui i ritardi dei concorsi per i docenti in cattedra, la riforma 0-6 anni (che di recente è stata approvata dal governo) e un miliardo di euro previsti per finanziare le università italiane, per citarne alcune. Questioni, queste, che rendono chiara la direzione che il governo vuole intraprendere: una scuola che sia in grado di poter offrire la miglior istruzione possibile in tutte le fasce, dai bambini ai ragazzi.
Il suo operato mostra delle motivazioni giuste, come creare le pari opportunità per tutti i bambini, a prescindere dalle loro provenienze sociali, economiche e religiose. Al tempo stesso, però, si riscontrano dei punti contraddittori. Da un punto di vista formativo ed educativo sembra che ci si diriga verso un orientamento anglosassone, o meglio in un anti-idealismo pedagogico, dove prevale l’acquisizione dei concetti e delle capacità tecniche, andando a discapito di quella educazione morale che, fino a poco tempo fa, veniva svolto in Italia tramite le lezioni di educazione civica. In un periodo dove le industrie cercano sempre di più personale qualificato, in special modo alcuni determinati settori come quello farmaceutico ed informatico, per il MIUR sembra essenziale che i ragazzi escano dalle scuole già competenti (tecnicamente parlando) per inserirsi nel mondo del lavoro.
Ma così facendo non si trascura la formazione di una comunità civile? Non si va a creare una comunità dettata troppo dal tecnicismo, dal fordismo e dalla legge della domanda e dell’offerta? Personalmente credo fortemente che in questo modo gli adulti di domani non saranno pronti ad inserirsi all’interno della società, che può essere la famiglia, gli amici, i colleghi di lavoro, in quanto, “addestrati” solo a lavorare e consumare, entreranno in un circolo vizioso. Per questo motivo l’educazione dei bambini non è compito esclusivo dei genitori, come purtroppo molti docenti credono, o vogliono credere per comodità, ma lo è anche degli educatori e delle educatrici, dei maestri e delle maestre, dei professori e delle professoresse. La maggior parte delle famiglie lavorano e non hanno molto tempo e “voglia” di seguire i propri figli. Così facendo, stiamo evitando di formare dei cittadini, privandoli di quei valori essenziali tipici di un Paese come il nostro.
Per tale ragione mi chiedo se sia giusto percorrere questo tipo di orientamento, se il MIUR abbia deciso di puntare sull’esclusivo miglioramento delle nostre imprese, se sia più importante l’economia del nostro Paese piuttosto che l’educazione di una comunità. Lascio a voi queste mie perplessità, con la speranza che con l’attuale governo e i prossimi che verranno, possano essere in grado di rendere la scuola una fonte inesauribile di benessere per il nostro Paese.