di Giorgio Di Perna
Quando si avvicina l’elezione del Presidente della Repubblica, due delle espressioni più comunemente utilizzate sono “Fumata bianca!” e “Chi entra papa esce cardinale”. In realtà, come è facile intuire, il detto nasce proprio dalle elezioni del Pontefice, che fino al 1870 risiedeva proprio al Quirinale, la “casa” del Presidente della Repubblica italiana. Le espressioni di cui sopra, però, sono state spesso utilizzate anche durante la Prima Repubblica quando i governi nascevano dopo ore e ore di trattative, veti e con il manuale Cencelli a portata di mano. Famosa in questo senso anche la frase di Paolo Cirino Pomicino – inviato di Giulio Andreotti – a Ciriaco De Mita: “Quello che tu monti a colazione, io te lo smonto a cena”.
Ciò a confermare che quanto accade nelle aule parlamentari, inevitabilmente seguito dalle trattative e dai veti del caso, è anche e soprattutto questione di aritmetica. Che sia il voto di fiducia al Governo o la semplice approvazione di una legge, i numeri sono fondamentali, specialmente quando si parla di elezione del Presidente della Repubblica.
L’ISTITUZIONE: l’elezione
L’elezione del Presidente della Repubblica, come recita il comma 3 dell’articolo 83 della Costituzione, ha luogo per scrutinio segreto a maggioranza di due terzi dell’assemblea. Dopo il terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta. Assemblea che vede la partecipazione dei Parlamentari (sia deputati che senatori) e di tre delegati per ogni Regione eletti dal Consiglio regionale in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze più un rappresentante della Valle d’Aosta.
Tale previsione costituzionale è, in realtà, il frutto di un compromesso tra i sostenitori dell’elezione ad opera del solo Parlamento e quelli del voto popolare. La scelta di integrare Camera dei Deputati e Senato con i delegati regionali, invece, vuole sottolineare il fatto che il Presidente della Repubblica rappresenta non solo lo Stato centrale ma anche le comunità locali. Altresì, le scelte dello scrutinio segreto e di una maggioranza elevata sono volte, rispettivamente, a dare ampia libertà all’elettore e a designare una figura condivisa. Tuttavia, per evitare situazioni di stallo, è anche previsto un quorum più basso.
Non è previsto, inoltre, che ad una votazione fallita il nome del candidato o dei candidati più votati conservi valore formale, tant’è che può essere sostituito, nella votazione successiva, con nomi nuovi. Pertanto, l’elezione può necessitare anche di molte sedute parlamentari. Pochi scrutini hanno richiesto l’elezione degli ultimi due Presidenti, Giorgio Napolitano (quattro nel 2006 e sei nel 2013) e Sergio Mattarella (quattro nel 2015).
Numerose, invece, sono state quelle per eleggere Giovanni Leone (ventitré scrutini, nel 1971), Giuseppe Saragat(ventuno scrutini, nel 1964), Sandro Pertini e Oscar Luigi Scalfaro (sedici, rispettivamente nel 1978 e 1992).
I PRESIDENTI: Saragat, Pertini e Scalfaro
Se oggi l’opinione pubblica concorda sull’idea che il Presidente della Repubblica possibilmente non debba essere il leader di una parte politica, questo non si poteva certo dire nella Prima Repubblica e l’esempio lampante è quello di Giuseppe Saragat, storico segretario del Psdi (Partito Socialista Democratico Italiano). Nonostante questo, Saragat fu assolutamente rispettoso della volontà del Parlamento: nel suo settennato non rinviò mai un provvedimento alle Camere per riesame e conferì sempre l’incarico di formare il governo agli esponenti indicati dalla maggioranza parlamentare. Terminato il suo mandato, divenne di diritto senatore a vita ed ebbe anche l’occasione di ritornare alla guida del suo partito, di cui resse la carica di segretario, tra il marzo e l’ottobre del 1976.
Sandro Pertini, da sempre antifascista e socialista, fu il primo Presidente a conferire l’incarico di formare il governo a una personalità non democristiana, Bettino Craxi. Nel 1981, in seguito alla caduta del governo Forlani dopo lo scoppio dello scandalo della loggia massonica segreta P2, incaricò il repubblicano Giovanni Spadolini: fu una sorta di rivoluzione. Il Presidente “partigiano” decise, nel suo settennato, di spogliarsi dei panni di iscritto al Psi (Partito Socialista Italiano): durante il proprio mandato, infatti, non rinnovò la tessera del partito pur senza rinnegare il suo essere socialista. Del resto, lasciato il Quirinale al termine del suo mandato e rientrato in Parlamento come senatore a vita di diritto, si iscrisse al gruppo senatoriale del Partito Socialista Italiano.
Il primo Presidente della cosiddetta Seconda Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, da subito si trovò ad affrontare momenti e questioni delicate: le stragi di Capaci e via D’Amelio e la lotta alla mafia; la decisione di non firmare il decreto Conso che di fatto depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti; il caso dei fondi Sisde (Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica). Sono queste solo alcune questioni affrontate da Scalfaro, il quale è stato l’unico Capo dello Stato a non aver nominato alcun senatore a vita, probabilmente per un problema legato all’interpretazione della Costituzione: non è chiaro, infatti, se il limite di cinque senatori a vita sia da intendersi come limite massimo di nomine a disposizione di ciascun presidente, oppure a disposizione del presidente della Repubblica come figura istituzionale (quindi comprendendo anche quelli nominati dai predecessori). Il presidente Scalfaro si mantenne fedele alla seconda interpretazione, a differenza dei suoi due predecessori Pertini e Cossiga, che avevano nominato cinque senatori a vita ciascuno.
LE CURIOSITÀ: Presidenti eletti con più scrutini
Dopo le dimissioni di Antonio Segni, nell’inverno del 1964 si tornò ad eleggere il nuovo inquilino del Quirinale. I due partiti socialisti decisero di candidare Giuseppe Saragat; Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano, invece, puntarono rispettivamente su Giovanni Leone e Umberto Terracini. Emerse, però, sin da subito una quarta candidatura di spicco, quella del democristiano Amintore Fanfani. Dopo sette turni infruttuosi e vista la temporanea impossibilità di una candidatura comune della maggioranza di centro-sinistra, i due partiti socialisti decisero di astenersi. Al decimo scrutinio il Psi iniziò a votare per Pietro Nenni che, a partire dal tredicesimo, divenne il candidato comune anche di Psdi e Pci; nel frattempo, visto lo stallo, Fanfani ritirò la propria candidatura. Dopo 15 scrutini si ritirò anche l’altro democristiano Leone e, al diciottesimo, ci fu l’accordo tra democristiani e socialdemocratici per votare Saragat, mentre Pci e Psi continuarono a sostenere Nenni. Dopo tre votazioni nelle quali i leader dei due partiti socialisti si erano affrontati in uno scontro quasi “fratricida”, Nenni chiese ai parlamentari che lo supportavano di far confluire i propri voti a quelli dell’eterno “amico-rivale”. Saragat fu così eletto Presidente il 28 dicembre 1964, al ventunesimo scrutinio, con 646 voti su 963 componenti l’assemblea.
Come Saragat, anche l’altro presidente socialista Sandro Pertini venne eletto a seguito delle dimissioni del suo predecessore. Nei primi tre scrutini di questa elezione la Dc optò per la candidatura di Guido Gonella, il Pci votò Giorgio Amendola e i socialisti concentrarono i propri voti su Pietro Nenni. Fino al tredicesimo scrutinio il Pci mantenne la candidatura di Amendola senza trovare consensi, mentre – già dal quarto scrutinio – democristiani, socialisti, socialdemocratici e repubblicani decisero di astenersi. A quel punto il segretario del Psi Craxi, con il chiaro intento di evitare l’elezione di un altro democristiano dopo la controversa presidenza Leone, propose la candidatura del Presidente del Senato Pertini, il quale però non voleva essere il Presidente di una sola parte politica. Il suo nome, tuttavia, non tramontò mai definitivamente. Dopo quindici scrutini andati a vuoto, di cui dodici con la maggioranza dei parlamentari che si astennero o votarono scheda bianca, la pressione dell’opinione pubblica spinse il segretario della Dc Zaccagnini ad accettare la candidatura di Sandro Pertini. Su tale nome si accodarono anche gli altri partiti del cosiddetto “fronte costituzionale” (Pci-Psdi-Pri e Pli ovvero i Liberali) e Pertini risultò eletto con 832 voti su 995, corrispondenti all’82,3%, la più larga maggioranza della storia repubblicana.
In seguito alle elezioni politiche del 5 e 6 aprile 1992, prima di poter cominciare le consultazioni per la formazione del nuovo governo, Francesco Cossiga rassegnò le dimissioni da Presidente della Repubblica. Il Presidente della Camera Oscar Luigi Scalfaro convocò così il Parlamento in seduta comune per il 13 maggio. Nei primi tre scrutini, quelli che richiedono la maggioranza qualificata dei due terzi, la Dc votò il candidato di bandiera Giorgio De Giuseppe, il Pds (Partito Democratico della Sinistra) Nilde Iotti, il Psi Giuliano Vassalli e la Lega Nord Gianfranco Miglio. Al quarto scrutinio, dove bastava la maggioranza, democristiani e socialisti si astennero. Nel corso del quinto e sesto scrutinio, come preannunciato, venne lanciata la candidatura di Arnaldo Forlani, che mancò l’elezione di circa 40 voti, a causa soprattutto dei numerosi franchi tiratori democristiani ma anche dei repubblicani, che votarono Spadolini. Negli scrutini successivi si delineò una situazione di stallo, mentre tra i votati apparve per la prima volta il nome di Scalfaro. Dopo il quindicesimo scrutinio, il 23 maggio, arrivò la tragica notizia della strage di Capaci, per cui cadde definitivamente la candidatura sotterranea di Giulio Andreotti, la quale era prevista una volta affossate tutte le altre. Le forze politiche trovarono quindi l’accordo sull’elezione di Oscar Luigi Scalfaro che, al sedicesimo scrutinio, con 672 voti su 1002, venne eletto Presidente della Repubblica.