Smettiamola con questa smania di sicurezza, o meglio, vivetela nella responsabilità. È antipatica per tutti questa situazione, lo stare in casa in modo obbligato, il non poter godere del principio di libertà tanto caro a tutte le democrazie liberali e che tutti riteniamo, evidentemente, caposaldo imprescindibile della nostra vita sociale. Peccato – o per fortuna – che le nostre Istituzioni ci abbiano ricordato come alcuni principi in certi momenti valgono più di altri, e garantire l’assistenza sanitaria ai nostri concittadini è talmente sacrosanto che possiamo essere anche posti “ai domiciliari” – seppur non agli arresti – per qualche tempo.
Qui non conta il tempo – che sarà da valutare man mano che passano i giorni – né tanto meno il motivo, che conosciamo tutti e sappiamo essere sintetizzabile in quel nemico invisibile che si trasferisce da persona a persona. Qui conta la nostra prontezza nell’affrontare una crisi. una prontezza che finora non c’è stata, almeno pienamente.
Se qualcuno non se ne fosse accorto, in un giorno di marzo di questo strano 2020, in Italia ci siamo risvegliati nel bel mezzo di quella che probabilmente sarà ricordata nei libri di storia come la più grande crisi mondiale del primo secolo del nuovo millennio. C’è infatti un virus che mina la nostra vita, ma soprattutto mette a repentaglio – in modo grave – la salute soprattutto di anziani e persone con altre patologie, e cosa ancora peggiore, rischia di mandare in crash il sistema sanitario di qualsiasi Paese, per l’incredibile assistenza che serve in terapia intensiva.
Assodato questo, sono iniziate le misure restrittive, gli inviti – poi diventati decreti e ordinanze – sul concetto di “rimanere a casa”, ma a quanto pare non tutti accolgono la questione in modo semplice e scontato. Ma cosa ancora peggiore si legge sempre più di frequente la voglia di vedere tra le strade i check-point dell’esercito per garantire i controlli. A quanto pare non bastano multe e denunce, non servono inviti, e non bastano neppure le paure a tenere le persone chiuse dentro le proprie mura domestiche: dopotutto l’italiano è libero. Ma libero fino a che punto?
Non ci si rende conto che oggi, oltre ad essere obbedienti alle disposizioni di legge, ci è chiesto innanzitutto di essere responsabili. Ce lo hanno chiesto esplicitamente il Presidente della Repubblica, il Governo e tutte le forze politiche, di maggioranza e di opposizione. Pochi si rendono conto – anche perché fino a quindici giorni fa era tutto impossibile anche solo da immaginare – che stiamo vivendo una fase nuova. Una fase in cui non esiste nessuno che ha la verità assoluta e la bacchetta magica per risolvere il problema. Ma soprattutto non c’è un tempo certo in cui potremo riprendere ad uscire, a fare sport all’aria aperta, girare per i locali, prendere un volo last minute e andare per il mondo. Non ci sono certezze, ma in queste incertezze non dobbiamo guardare il problema dal binomio inconciliabile di “paura” vs “speranza”. Perché la paura, i timori, le preoccupazioni, sono sensazioni che viviamo tutti.
Ma dalla paura può nascere una socialità – temporanea – diversa, che passa dalla responsabilità. Da qualche giorno, man mano che si conosce qualcosa in più su questo patogeno, stiamo iniziando a cogliere e rielaborare numeri e cifre. Non solo quelle di contagi e morti certificati. Scopriamo sempre più che ci sono tanti – troppi – che contraggono il virus ma non manifestano i sintomi, diventando delle vere e proprie bombe di contagio. Ma noi pretendiamo di andare a correre, di andare a comprare tutti i giorni il pane fresco o la pietanza di cui il nostro palato ha voglia, dimenticandoci di ciò che è essenziale, dimenticandoci che la responsabilità non è solo qualcosa di soggettivo ma anche di oggettivo.
Bene, – anzi, male, molto male – perché il virus non guarda in faccia a nessuno e se davvero siamo convinti che stiamo facendo di tutto per tornare alle nostre vite il prima possibile, ricordiamoci che quando ciò avverrà vorremo guardarle nell’illusione di non aver fatto cambiare nulla in esse. Pertanto, prima di uscire di casa, a tutela nostra e di chiunque che – anche inconsapevolmente – possa essere messo a rischio, per una nostra “voglia”, domandiamoci se ne vale la pena, se è possibile farne a meno.
Oggi – non ieri e neppure domani, ma oggi – ci giochiamo la nostra consapevolezza. Nessuno ci ridarà questo tempo, un tempo strano che siamo chiamati a vivere e non a fuggire. Un tempo in cui abbiamo paura di tutto e di tutti, in cui vogliamo tornare ad una normalità che con tanti nostri comportamenti rischiamo paradossalmente di continuare a minare. Un tempo in cui chiediamo l’intervento della forza perché la ragione sembra non assisterci e dove non ci rendiamo conto che spesso basterebbe un sospiro, un po’ di razionalità e tanto buon senso, per ricordarci che più che cantare dal balcone tutti insieme, per tutelare i nostri nonni, gli anziani dell’ultimo piano e chi è in prima linea a combattere per noi – permettetemi, “parandoci il culo” – avrebbe più senso stare alle leggi e ai consigli, ma non per obbedienza bensì per senso di responsabilità verso chiunque, soprattutto verso chi non siamo in grado di difendere.