di Simone Nardone
“Il maggioritario creerebbe instabilità”, queste le parole usate, nel chiedere la fiducia al Senato, dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte il quale, con una mossa politica rivolta ai centristi, non deve aver notato quanto quel terreno fosse scivoloso.
Ci sono “caduti” in tanti sui temi elettorali e sistemici. E un’osservazione di questo tipo che sa quasi di promessa rivolta ai moderati – tra l’altro molto difficile da mantenere – lascia il tempo che trova con una maggioranza in bilico o molto risicata.
Ma la cosa che spinge alla perplessità è il volo pindarico dell’osservazione sistemica fatta dal presidente Conte. Anche se può sembrare un semplice messaggio politico rivolto alle forze che egli stesso vuole avvicinare, la questione tecnica è ben diversa.
Parlare di stabilità o instabilità di un sistema politico, per prima cosa, non dipende dal sistema elettorale, o almeno non esclusivamente – errore di osservazione da sempre tutto italiano – ma da tanti altri fattori, tra i quali sicuramente quello del sistema dei partiti. Seconda cosa che meraviglia è la mancanza di attenzione al concetto di “stabilità”, almeno nell’accezione politica del termine. Conte ha dimostrato di essere un bravo giurista, ma forse tra le sue letture manca il “Dizionario di Politica” di Bobbio, Matteucci, Pasquino che definiscono “la stabilità” come “la prevedibile capacità del sistema di durare nel tempo”. In realtà, in riferimento all’accezione più idonea all’osservazione e allo studio del sistema politico, gli stessi autori in un passaggio spiegano come questo “è stabile non tanto a causa della sua struttura, ma della sua cultura politica congruente con la struttura stessa”.
Si potrebbe aprire un mondo di riflessioni sul fatto che forse il sistema istituzionale in Italia sia saldo – persino stabile, da un certo punto di vista – e duraturo nel tempo. Ma fare riferimento in quel modo al concetto che un sistema (in questo caso elettorale) – il maggioritario – creerebbe instabilità, lascia quanto meno perplessi, salvo che non si intenda per “stabilità” la capacità di mantenere lo status quo.
Ma anche qui: si potrebbe obiettare: quale status quo? Il sistema dei partiti nel nostro Paese ha attraversato una fase di transizione iniziata nei primi anni ’90 e non ancora terminata. Negli stessi anni della cosiddetta Seconda Repubblica i governi hanno avuto una durata media più lunga e persino le legislature sono riuscite ad allungarsi, ma non per questo sono state meno travagliate.
La stessa legislatura iniziata nel 2018 ha già visto un eclatante cambio di maggioranza e ne sta conoscendo un altro. Pertanto, fermo restando il concetto che non esistano sistemi elettorali migliori di altri ma che questi siano semplicemente la traduzione in seggi dei voti espressi dai cittadini, cosa vuol dire “instabilità politica” e perché additarla ad un sistema elettorale?
Vista in quest’ottica, la tanto vituperata “instabilità” – che tra l’altro deriva dall’altrettanto contestato, e fortunatamente mai toccato articolo 67 della Costituzione italiana, che cita testualmente “senza vincolo di mandato” in riferimento alla libertà dei parlamentari di poter votare in modo difforme dal proprio gruppo e di poterlo addirittura cambiare – dovrebbe essere tradotta in “elasticità”, almeno in termini politici.
Sia chiaro, a dispetto dei risultati nei voti di fiducia in Parlamento, al di là di maggioranze riuscite o non riuscite che tendano a destra, a sinistra o al centro, o di personalità di spicco che ricoprano ruoli di Governo, la cultura politica, come spiegavano Bobbio Matteucci e Pasquino, è “congruente” alla struttura in cui opera, altrimenti sì che si parla di instabilità, ma solo in quel caso.