di Valerio Iannitti
Lo scrittore inglese Aldous Leonard Huxley è celebre soprattutto per due romanzi: Brave New World, tradotto in italiano con Il mondo nuovo e Island, L’isola. Il primo, distopico, risale al 1932 mentre il secondo, utopico, è successivo di trent’anni.
Nel primo si tratteggia un mondo dove vige una tirannia apparentemente benevola: uno statico, efficiente e totalitario welfare-state. Non ci sono guerre, povertà o crimini. La società è stratificata attraverso caste geneticamente predestinate. In cima ci sono gli appartenenti alla categoria Alpha. Gamma, Delta ed Epsilon sono servili, intenzionalmente danneggiati nel cervello. Gli ordini inferiori sono necessari perché gli Alpha – persino gli Alpha alimentati da una droga chiamata soma – non potrebbero mai essere felici nel fare lavori umili. La vita delle donne e degli uomini “come la conosciamo noi” è confinata in una riserva di “selvaggi” lasciata tale sia per mancanza di fondi sia come attrazione turistica. La stragrande maggioranza dell’umanità, infatti, reduce da una guerra di cui le persone non conoscono alcunché, vive improntata alle logiche del fordismo (la storia si svolge infatti nell’anno di Ford 632, laddove l’anno zero coincide con il 1908, anno di inizio della produzione del Modello T). Tale filosofia è applicata all’essere umano in ogni ambito e fa sì che ispirata alle sue logiche sia anche la riproduzione umana, la quale è esclusivamente extrauterina. Nei fatti si tratta di un mondo dove vi è controllo delle nascite e il popolo vive in una situazione di pace (diversamente da quanto è ravvisabile in 1984), dove il sesso è incoraggiato (non vietato come in 1984) ma sterilizzato, la droga (il soma) allevia la morte e i dolori, le persone vivono con aspetto di giovani fino ai sessant’anni per poi morire senza soffrire. Un siffatto mondo, dove gli esseri umani non conoscono il proprio passato né l’importanza del dolore e del sacrificio e dove hanno immediata accessibilità al piacere, finirà per disgustare il “selvaggio” John, mentre Lenina, che vive nel Mondo nuovo ed è solita concedersi indistintamente a chiunque, solo quando entra in contatto con John prova finalmente qualcosa di simile all’amore[1].
Il romanzo L’isola mescola narrativa e saggistica sociologica. Influenzato dalla passione dell’Autore verso l’Oriente, è ambientato in un’isola del sudest asiatico dove Will, un giornalista impegnato in un reportage sul petrolio, si ritrova a seguito di un naufragio. Costui finirà per ammirare la società dell’isola di Pala, apparentemente perfetta, dove si coniugano scienza, arte e rispetto della natura e si rifiutano i canoni imposti dalla cultura occidentale. In realtà, anche in questo romanzo Huxley inserisce elementi distopici, quasi a voler rimarcare l’inevitabile tendenza al male insita nell’essere umano.
Nel 1958, oltre venticinque anni dopo aver scritto “Il mondo nuovo”, Huxley tornava a parlarne pubblicando “Ritorno al mondo nuovo”, ravvisando elementi profetici nel suo romanzo giovanile. In poco più di un quarto di secolo vedeva infatti avverarsi le sue peggiori previsioni, in un modo molto più repentino di quanto paventava. Nel nuovo scritto affrontava alcune delle sfide che lui riteneva prioritarie per il genere umano, esse andavano lette tenendo bene a mente, tra gli altri, gli episodi che erano d’attualità, relativi alla rivolta d’Ungheria, alla bomba all’idrogeno e ai costi della “difesa” delle nazioni.
Di seguito si elencano gli argomenti sviluppati dall’Autore inglese e successivamente si approfondirà, in particolare, il secondo punto.
- Sovrappopolazione;
- Quantità, qualità e moralità;
- Superorganizzazione;
- La propaganda in una società democratica;
- La propaganda sotto la dittatura;
- L’arte di vendere;
- Il lavaggio dei cervelli;
- La persuasione chimica;
- La persuasione subconscia;
- Ipnopedia;
- Educazione alla libertà;
- Che fare?
Quantità, qualità e moralità.
Huxley nel suo romanzo prevedeva nascite controllate e l’utilizzo dell’eugenetica e della disgenetica. Egli notava come nella vita reale i miglioramenti nell’igiene e nella farmacologia, nonché una maggiore coscienza sociale, consentivano la sopravvivenza di un sempre maggior numero di persone con difetti ereditari. Ciò, per quanto lodevole, a suo dire avrebbe peggiorato e non migliorato la salute fisica e l’intelligenza medie della popolazione. Nell’affermare ciò si rifaceva anche alle tesi del dottor W.H. Sheldon, secondo cui “al nostro ceppo migliore tende a sostituirsi un altro ceppo, inferiore sotto ogni aspetto”. L’autore si chiedeva in che modo in un Paese sovrappopolato e sottosviluppato potessero sopravvivere istituti democratici e in che modo in una società ricca e industrializzata la disgenetica, ancorché praticata a caso e non scientificamente come ne Il mondo nuovo, potesse conservare le proprie tradizioni di libertà individuale e governo democratico.
Le questioni fondamentali appaiono due: è vero che l’intelligenza media sta peggiorando e non migliorando? I principi liberale e democratico ci terranno compagnia ancora per molto?
Innanzitutto bisogna chiarire che l’utilizzo del quoziente intellettivo per misurare l’intelligenza è stato più volte messo in discussione[2].
Quindi vale la pena familiarizzare con le nozioni di “effetto Flynn”, dal nome dello scienziato neozelandese James Robert Flynn, ed “effetto Flynn invertito”.
Flynn ha pubblicato il suo studio nel 1987 sul Psychological Bulletin, dopo aver messo a confronto i risultati di test d’intelligenza effettuati su alcuni bambini nel 1947 e nel 1972. In tale lasso di tempo, il QI dei ragazzi era aumentato di 8 punti. Da qui, la deduzione: nelle nazioni sviluppate il QI aumenta da una generazione all’altra in una misura variabile tra i 5 e i 25 punti. Tale fenomeno venne dunque ribattezzato “effetto Flynn”.
Tuttavia, uno studio dell’Università di Oslo del 2004 ha notato come tale effetto non sia proseguito anche successivamente e anzi tra il 1970 e il 1993 tale trend fosse diminuito, per poi addirittura iniziare ad invertirsi[3].
Le motivazioni alla base di questa involuzione vengono imputate a diverse cause. Una di queste – che ricorda i capolavori di Orwell e Bradbury – potrebbe concernere l’impoverimento del linguaggio: come si evince da un recente articolo di Italia Oggi, vi sono diversi studi che “dimostrano infatti la diminuzione della conoscenza lessicale e l’impoverimento della lingua: non si tratta solo della riduzione del vocabolario utilizzato, ma anche delle sottigliezze linguistiche che permettono di elaborare e formulare un pensiero complesso”[4]. I motivi alla base della diminuzione del q.i. possono essere comunque di diverso tipo: potrebbe trattarsi di pertubatori endocrini (ad esempio molecole contenute nella plastica che hanno anche l’effetto di ostacolare l’azione dello iodio, fondamentale nello sviluppo cerebrale), educazione troppo facile, tecnologia e digitalizzazione[5] (con tale considerazione cozzano i risultati più alti di popolazioni asiatiche quali quelle coreana e giapponese, pure molto dedite alla tecnologia), immigrazione (quando portano a riprodursi con partner dal più basso quoziente intellettivo: su questo aspetto si veda meglio oltre); infine, è stata vagliata anche l’ipotesi selettivo-demografica, secondo cui le persone più intelligenti sarebbero propense a studiare più a lungo e cercare lavori migliori, conseguentemente generando un minor numero di figli. Secondo i ricercatori norvegesi, il fatto che spesso all’interno della stessa famiglia si notassero peggioramenti, porta tuttavia ad escludere fenomeni quali quelli genetici o legati all’immigrazione, a favore delle altre cause ambientali.
Oltre alle serie storiche, giova ribadire la presenza di studi inerenti anche alla “geografia dei q.i.” e alla correlazione esistente, ad esempio, tra q.i. e credenze religiose o tra q.i. e reddito o, ancora, tra q.i e livello di istruzione.
Sul primo punto, il dibattito sulle relazioni tra razza e intelligenza è di lunga data e non è questa la sede per approfondirlo. Basti ricordare che l’esistenza di differenze per razza sono state supposte inizialmente da Voltaire, Hume, Kant e Linneo nel XVIII secolo e rimasero predominanti almeno fino al XX secolo[6], quando diversi studiosi iniziarono a porre l’accento sull’importanza dei fattori ambientali.
Venendo all’epoca contemporanea, dallo studio del 1998 di Philippe Rushton Race evolution and behavoir si può notare come l’estremo Oriente si collochi in testa alla classifica, seguito da Europa, Australia e Nord America; poi vi sono Sudamerica, vicino Oriente e Maghreb, infine i Paesi africani subsahariani. I risultati sono stati grossomodo confermati da una successiva ricerca del 2002 condotta da Richard Lynn e Tatu Vanhanen, IQ and the wealth of nations, aggiornata nel 2012 col lavoro Intelligence: A unifying construct for the social sciences. Tra i pochi risultati notevolmente difformi nel 2012 rispetto al 2002, proprio quello dell’Italia, che scende da un punteggio di 102 a 96.
Tali studi hanno subito forti critiche ed accuse di razzismo. Tra le altre, quelle nel 2016 di Rindermann, Becker & Coyle, che hanno interpellato 71 esperti di psicologia sulle verosimili cause delle ampie differenze internazionali nei punteggi dei test cognitivi; a loro avviso, l’istruzione è il fattore più importante implicato in queste differenze, con la genetica al secondo posto (che spiegherebbe il 15% delle differenze cognitive, con un’elevata variabilità tra le stime dei diversi esperti) e salute, ricchezza, geografia, clima e politica come i fattori più importanti a seguire. Circa il 90% degli esperti, che ha partecipato al sondaggio, ritiene comunque che vi sia una qualche componente genetica nei gap internazionali dei test cognitivi.
Per concludere sul punto citando Wired, “Il dibattito è complessissimo e avvelenato[7] , con opinioni variegate, e richiederebbe pagine. Mi limito a citare tre dati. Uno, da decenni la differenza si sta restringendo[8] grazie all’aumento dei punteggi dei neri, un dato pressoché impossibile da spiegare su base genetica. Due, gli africani di recente immigrazione in Usa tendono ad avere più successo accademico[9] – anche questo un dato poco compatibile con una forte componente genetica. Tre, ci sono indizi che interventi sociali mirati possano chiudere completamente[10] il divario accademico tra bianchi e neri”[11].
Di seguito, alcuni brevi cenni con riferimento al rapporto tra q.i. e, rispettivamente, religione, reddito, livello di istruzione.
Il rapporto tra religione e quoziente intellettivo è stato oggetto, di recente, di uno studio di Miron Zuckerman, Jordan Silberman e Judith Halldel della Personality and Social Psychology Review, i quali hanno confrontato i dati di migliaia di persone in 53 diversi Paesi, giungendo alla conclusione di una relazione inversa tra intelligenza e religiosità. Questa relazione, secondo gli studiosi, può avere tre spiegazioni: 1) le persone intelligenti sono meno propense al conformismo e più propense a rifiutare i dogmi religiosi; 2) tali persone tendono ad adottare un pensiero analitico e non intuitivo, che mina le credenze religiose; 3) molte funzioni della religiosità, quali compensazione, autoregolazione e autostima, sono fornite indipendentemente dall’intelligenza. Gli esiti della ricerca non affermano che chi crede in Dio sia automaticamente più stupido ma solo che chi è intelligente tende più facilmente, diventando adulto, a staccarsi dalle convenzioni sociali per farsi un’idea propria[12].
Per quanto concerne il reddito, una ricerca del 2007 del professore americano Jay Zagorsky sembra dimostrare un nesso tra q.i. e reddito (e non tra q.i. e ricchezza, poiché a suo dire i più intelligenti hanno minore propensione al risparmio)[13]. Tali dati parrebbero contraddetti, ad esempio, guardando al continente europeo, dove l’Italia ha un reddito pro-capite tra i più bassi e un q.i. tra i più alti. I risultati riguardanti l’Africa, invece, possono essere spiegati con fattori ambientali quali, in primis, l’accesso scarso all’istruzione. Ad ogni modo, non pare sussistere nesso tra q.i. e felicità, poiché le persone più intelligenti tenderebbero ad alzare l’asticella dei loro obiettivi[14].
La correlazione più evidente appare, in realtà, proprio quella tra intelligenza ed istruzione, che può spiegare anche i risultati sotto la media ottenuti nel continente africano. Tra gli studi in materia che hanno dimostrato questo nesso, si ricorda quello del Dipartimento di Statistica dell’Università di Oslo del 2011, che ha certificato i risultati diversi tra coloro che frequentavano le scuole e coloro che le abbandonavano[15].
Ciò detto, giova tirare in ballo anche il concetto di “quoziente emotivo”[16]. L’intelligenza emotiva, infatti, è quella che misura la consapevolezza di sé, la capacità di regolare le proprie azioni e di gestire meglio la responsabilità, la motivazione, l’empatia, le relazioni, il che, secondo alcuni, è anche più importante del q.i., anche per quanto riguarda i risultati lavorativi[17]. Il problema – si vedrà a breve – potrebbe essere proprio la scissione tra intelligenza e coscienza (che si può far rientrare nell’intelligenza emotiva o “intelligenza del cuore”) nel mondo che potremmo avere all’orizzonte.
Aveva dunque ragione Huxley quando paventava il pericolo di un abbassamento dell’intelligenza media? Sì e no. Sì, perché in effetti le ricerche citate confermano un calo medio del q.i.; no, intanto perché la stessa idoneità del q.i. a misurare l’intelligenza viene messa in dubbio. Inoltre, la scienza ha offerto vasti ulteriori contributi nel frattempo, lasciando intendere oltre tutto il fondamentale ruolo che rivestono i fattori ambientali come, in prima battuta, il livello di istruzione. La genetica, dunque, conta, ma risulta più importante il bisogno di stimolare l’intelligenza. Tali considerazioni sono estendibili al temuto legame tra il calo delle intelligenze e i rischi per la democrazia. Essa non appare tanto legata all’intelligenza quanto alle conoscenze e alla consapevolezza dell’opinione pubblica che, se non adeguatamente formata, rischia di non saper cogliere i benefici dovuti alle idee liberali e ad uno stato di diritto oggetto di conquista lunga e faticosa, a favore di strampalate e deresponsabilizzanti ipotesi di uomo solo al comando: ciò che, a ben vedere, complice anche una crisi economica piuttosto diffusa nei Paesi occidentali, sta già accadendo. Disse Jefferson: “Se una nazione pretende di essere ignorante e libera, essa pretende ciò che mai è stato e mai sarà… un popolo non può essere al sicuro senza il sapere”.
Ma è a questo punto che interviene il contributo di Harari[18]: chi ci assicura che in futuro debbano continuare ad avere la meglio le idee liberali? Ci sono tre motivi, secondo lo studioso israeliano, per cui ciò non è scontato: 1) gli umani diventeranno economicamente e militarmente via via meno utili, sicché il sistema politico ed economico assegnerà loro sempre minore importanza; 2) essi continueranno ad essere preziosi come collettività, non come individui; 3) vi sarà solo una sorta di “super élite” di uomini importanti, mentre la massa conterà sempre meno.
In passato – sostiene Harari – intelligenza e coscienza hanno progredito parallelamente: compiti come giocare a scacchi, diagnosticare malattie e identificare terroristi richiedevano umani che fossero intelligenti e coscienti. L’evoluzione dei computer potrebbe scindere tali due componenti: qual è più importante? La risposta di aziende ed eserciti appare certa: l’intelligenza è obbligatoria, la coscienza è un optional. L’intelligenza emotiva, dunque, potrebbe – ahinoi – finire per contare meno di quanto auspicabile.
La scienza offre ormai facilmente ai tre principali capisaldi delle teorie liberali tre ipotesi alternative che le mettono in dubbio:
- Tesi liberale: io sono un in-dividuo (in-divisibile), che in fondo ha un’unica voce interiore. Critica alla tesi liberale: l’individuo altro non è che un algoritmo e, pertanto, divisibile e privo di unica voce interiore (viene in mente il film d’animazione Inside out);
- Tesi liberale: il mio autentico sé è completamente libero. Critica alla tesi liberale: gli algoritmi che costituiscono un umano non sono liberi, bensì plagiati da geni e pressioni ambientali e prendono decisioni in maniera deterministica o a caso;
- Tesi liberale: nessuno mi conosce meglio di me stesso. Critica alla tesi liberale: un algoritmo esterno può tranquillamente conoscermi meglio di come io conosca me stesso.
In futuro le azioni militari sempre più saranno demandate a droni, per cui conterà solo chi saprà pilotarli e i soldati smetteranno di essere importanti sia nella loro funzione di valorosi agenti in azione sia come scudi umani mandati al macello. Dal punto di vista occupazionale sempre più professioni saranno svolgibili da algoritmi. Una ricerca ormai non più recentissima elenca tutta una serie di lavori comuni che entro vent’anni potrebbero con altissima probabilità essere svolti da algoritmi[19]. Sono passati 25 anni da quando Deep Blue della IBM sconfisse il campione del mondo di scacchi Kasparov: era un’altra era tecnologica. Le domande allora diventano: cosa farà la maggior parte dei comuni mortali nel proprio tempo? Harari vaglia le possibilità che essi trovino conforto e distrazione in droghe, giochi al computer, mondi virtuali in 3D (torna alla mente la soma di Huxley). Avrà ancora senso parlare di importanza di q.i. ed intelligenza media della popolazione se sarà vero che il potere sarà concentrato in un sempre minor numero di “super-sapiens”? Che fine faranno i principi liberal-democratici che hanno trionfato dall’illuminismo in poi?
Speriamo che queste ipotesi non si verifichino prim’ancora di quanto Harari possa credere, come avvenne per Huxley e il suo “mondo nuovo”, e che possiamo continuare a tenere allenati sia la nostra “intelligenza del cervello” sia quella “del cuore”, conservando le libertà che ci sono care e continuando a lottare per esse.
[1] Cfr. https://www.huxley.net/
[2] Tra gli altri, basti richiamare la corposa ricerca canadese Fractionating human intelligence di Adrian Owen del Western’s Brain and Mind Institute in https://www.cell.com/neuron/fulltext/S0896-6273(12)00584-3. Si veda anche “La storia controversa dei test del QI” in https://www.focus.it/comportamento/psicologia/la-storia-controversa-dei-test-del-qi
[3] I risultati sono stati pubblicati sulla rivista rivista Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America. Qui un sunto https://www.pnas.org/content/115/26/6674
[4] C. Clavè, Il quoziente di intelligenza, che era sempre in crescita, ora sta diminuendo, in https://www.italiaoggi.it/news/il-quoziente-di-intelligenza-che-era-sempre-in-crescita-ora-sta-diminuendo-2490366
[5] Al link https://www.raiplay.it/video/2018/10/Presa-Diretta-Iperconnessi-a5d6226e-1fd2-450d-a8e7-ecd622413b20.html si può rivedere una puntata di Presa diretta inerente i possibili effetti dell’uso eccessivo degli smatphone sulla capacità di concentrazione delle persone.
[6] Come affermato sul sito di Focus (https://www.focus.it/comportamento/psicologia/la-storia-controversa-dei-test-del-qi ), “uno strumento scientifico nato con un’utilità pratica era divenuto un mezzo per marginalizzare comunità già isolate: nel 1927, una legge della Corte suprema degli Stati Uniti stabilì che i “deboli di mente” i cui deficit cognitivi erano stati “certificati” da un test del QI potessero essere sterilizzati. La legge e il caso giudiziario che la portò in vigore, conosciuto come Buck v Bell, determinarono la sterilizzazione coatta di 65 mila persone sulla base anche del quoziente intellettivo, fino agli anni ’70 del ‘900”.
[7] https://www.vox.com/policy-and-politics/2018/3/27/15695060/sam-harris-charles-murray-race-iq-forbidden-knowledge-podcast-bell-curve
[8] https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3146648
[9] http://www.unz.com/article/the-iq-gap-is-no-longer-a-black-and-white-issue/
[10] http://nymag.com/intelligencer/2018/04/these-urban-experiments-refute-charles-murrays-race-science.html
[11] https://www.wired.it/scienza/lab/2019/01/17/razzismo-james-watson-doppia-elica-genetica/
[12] https://www.independent.co.uk/news/science/religious-people-are-less-intelligent-than-atheists-according-to-analysis-of-scores-of-scientific-8758046.html
[13] https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0160289607000219
[14] Si veda “Intelligence: All that Matters” di Stuart Ritchie, un ricercatore che si occupa di intelligenza all’Università di Edimburgo (https://www.ease.ed.ac.uk/cosign.cgi?cosign-eucsCosign-ppls.ed.ac.uk&https://ppls.ed.ac.uk/people/stuart-ritchie).
[15] “La scuola fa bene al quoziente intellettivo, lo dice anche la scienza” in https://st.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-12-27/qi-einstein-170255.shtml?uuid=Aacz1MYE&refresh_ce=1
[16] Cfr., tra gli altri, Peter Salovey and David J. Sluyter (a cura di) Emotional development and Emotional Intelligence: “educational implications, 1997 New York: Basic Books; D. Goleman, Intelligenza Emotiva che cos’è e perché può renderci felici, Rizzoli 1994.
[17] “Perché l’intelligenza emotiva è più importante del tuo QI”, in http://psiche.org/articoli/perche-intelligenza-emotiva-e-piu-importante-del-tuo-qi/
[18] Y.N. Harari, Homo deus. Breve storia del futuro, Bompiani, 2015, pp. 373 e ss.
[19] C. Benedkt Frey, Michel A. Osborne, The Future of Employment: How Suscettible Are Jobs to Computerisation? 17/9/2013, in https://www.oxfordmartin.ox.ac.uk/downloads/academic/The_Future_of_Employment.pdf