di Simone Nardone
Lo scorso fine settimana si è attivata la macchina democratica del nostro Paese. Con non poche difficoltà e qualche novità ingarbugliata, si sono recati ai seggi quasi il 73% degli aventi diritto, dato simile seppur in calo (poco più del 2%), rispetto alle Politiche del 2013. Il 4 marzo si è registrata la percentuale di affluenza più bassa della storia per le massime elezioni in Italia.
Come sancito dalla Costituzione abbiamo votato per eleggere i nostri rappresentanti in Parlamento e per esprimere (indirettamente) lo nostra visione sul futuro governo del Paese. Ovviamente – ma questo è dato per scontato che tutti lo sappiano – non abbiamo di certo votato il Presidente del Consiglio, che è espressione di una maggioranza parlamentare ed è nominato dal Presidente della Repubblica.
Detto ciò, ci troviamo in una situazione strana, dove ci sono partiti che esultano per aver “vinto”, altri che cercano di capire perché hanno perso e una situazione istituzionale più unica che rara, perché per la prima volta dall’avvento della Seconda Repubblica, viviamo una crisi politica e di governo già all’indomani del voto. Anche nel 2013 ci trovavamo in una situazione analoga, ma allora una maggioranza (per via del diverso meccanismo elettorale), alla Camera c’era, ma era monca per via della questione numerica al Senato. Questa volta no, né alla Camera, né al Senato ci sono i numeri. Eppure c’è chi esulta, addirittura chi parla dell’avvio della Terza Repubblica. Un cambiamento, non si capisce quale, sembra a portata di mano; dalle urne sono uscite sicuramente bocciate le forze protagoniste dell’ultimo governo. Ma, vedendo i primi atteggiamenti post voto, potremmo rimpiangere la cooperazione politico-istituzionale della tanto vituperata Prima Repubblica.
Da elettori, cittadini, osservatori politici e aspiranti capi di stato, siamo tutti a caccia di numeri, tutti a voler cogliere – troppo spesso in base al tifo da stadio che contraddistingue supporters e simpatizzanti – la maggioranza possibile da affidare a Salvini o Di Maio, giusto per citare i due principali indiziati per aver vinto le elezioni, dimenticandoci che, forse, non le ha vinte nessuno. Perché se è vero che in politica, in base ad una dichiarazione, un provvedimento, un voto o una convergenza, possono cambiare gli assetti di maggioranze e opposizioni, è altrettanto vero che per come si vive in Italia la demonizzazione dell’avversario, questo rende difficile il verificarsi, in un immediato futuro, situazioni analoghe a quelle che ci sono nei governi della maggior parte dei Paesi europei, Germania per ultima.
Detto ciò, potremmo supporre che il centrodestra, per accordo di coalizione, indichi e supporti il nome di Salvini, che difficilmente riuscirà ad allargare la maggioranza relativa della sua coalizione. Il M5S, forte del risultato di essere “primo partito”, vuole l’incarico di governo per Di Maio. Entrambi corteggiano i democratici, che da una posizione di minoranza potrebbero anche valutare appoggi su singoli provvedimenti, in linea con il proprio programma: il dubbio è come giustificherebbero al già decimato elettorato un voto di fiducia o un non voto contrario a dare avvio ad un governo di centrodestra o di chi si è sempre detto contrario a quasi tutte le linee politiche degli ultimi tre governi, presieduti dal PD. I moderati tutti insieme (nel concetto delle larghe intese più accreditate), non hanno chance di numeri. Poi c’è la possibilità numerica, quella messa in evidenza fin da subito: l’alleanza di governo Lega-M5S. Qui i dubbi sono due: come giustificherebbero al proprio elettorato, l’accordo post elettorale, se tale dinamica è stata più volte definita da entrambi gli schieramenti come “inciucio”? Ma soprattutto, chi sarebbe disposto al “passo indietro” o di lato, concedendo all’altro leader di presiedere l’esecutivo? L’ultima opzione, quella più antipatica all’opinione pubblica, ma anche quella più estrema da una parte e più congrua con il concetto di “responsabilità” dall’altra, è il governo del Presidente, con l’individuazione di una figura “altra” dai leader dei partiti e supportata da tutte le principali forze politiche per condurre il Paese fuori dallo stallo.
Oltre tutto questo c’è Mattarella, con quello che dirà e proporrà alle delegazioni. Ci sono la politica, gli accordi e la sintesi, che in situazioni come queste non può che essere fatta di compromessi. O addirittura c’è un’altra ulteriore, e anche quella poco apprezzata, soluzione: si ridà la parola ai cittadini e si torna al voto.