di Vincenzo Parisella
Sembra passata una vita da quel 27 novembre 2005, data che – forse – nessuno ricorderà, ma che nella memoria degli appassionati di calcio rimarrà indelebile.
Era una delle tante domeniche di campionato e l’Inter, guidata dall’imperatore Adriano, si apprestava a giocare in quel di Messina. Tutto normale, sembrava. Eppure, proprio lì, si consumò uno degli episodi di razzismo che ancora oggi viene ricordato dai più. Durante la partita, infatti, il giocatore messinese Marc Zoro, ivoriano di nascita, dopo aver udito più e più volte cori razzisti provenienti dalle gradinate ospiti, prese il pallone e decise di fermarsi in segno di protesta.
A distanza di molti anni da allora, mi trovo oggi a scrivere queste righe da amante di questo sport, capace di suscitare grandi emozioni in me e in tutte le persone che tifano per i ventidue atleti che ogni domenica scendono in campo con l’unico scopo di insaccare una sfera nella rete avversaria. L’amore viscerale per il football, per i colori della nostra squadra del cuore, è così forte da tenerci ancorati alla poltrona fino al fischio finale di ogni partita, a denti stretti a incitare i nostri beniamini, ad aspettare una magia del numero 10, dimenticandoci anche delle festività.
Una passione fortissima, quindi, ma che viene messa a dura prova dagli ormai continui episodi di violenza e di razzismo, in grado di gettare ombre sul movimento calcistico italiano e su tutti gli addetti ai lavori che di esso sono parte integrante.
La notizia sicuramente la conoscerete tutti: il calcio italiano, infatti, è tornato sotto i riflettori della cronaca per un vergognoso episodio di razzismo accaduto lo scorso 26 dicembre, durante la partita tra Inter e Napoli disputata nello stadio San Siro di Milano. Questa volta, ad essere preso di mira dai cori razzisti è stato il calciatore Kalidou Koulibaly, difensore del Napoli, di nazionalità senegalese. L’ennesimo episodio d’inciviltà ha fatto il giro del mondo, generando un’onda d’imbarazzo che ha investito i massimi vertici del calcio italiano, i quali hanno immediatamente garantito pene severissime. Sul punto, mi sovviene allora questa riflessione: il calcio italiano soffre di Alzheimer?
Lo scorso anno, lo stesso calciatore era stato fischiato durante la partita tra Roma e Napoli, mentre qualche anno prima era toccato a Kevin Prince Boateng, ex giocatore del Milan, che durante una partita amichevole contro la Pro Patria, portato all’esasperazione da ignobili cori razzisti, aveva deciso di abbandonare il campo.
L’episodio del 26 dicembre scorso mi fa temere che – a differenza di quanto avviene in altri Paesi – in Italia si debba sempre superare il limite dell’intollerabile prima di prendere provvedimenti e decisioni che dovrebbero essere alla base dell’etica sportiva. Un popolo assuefatto, le cui coscienze sembrano risvegliarsi solo quando l’uomo si fa animale per sfogare i propri istinti e le proprie paure sui suoi fratelli.
Il calcio che amo non è fatto di cori razzisti e di morti da ricordare.
In tutto questo, però, c’è sempre un barlume di speranza, come quello rappresentato dall’FC Patrizia, squadra di calcio nata ad Itri nel 2017 e composta dai giovani migranti del CAS, il centro accoglienza speciale della cooperativa Arteinsieme.
Lo scorso novembre, la compagine itrana è stata premiata a Roma dal presidente del CONI, Giovanni Malagò, durante la cerimonia delle “Ciotole di benemerenze sportive europee”, in quanto i ragazzi dell’SC Patrizia si sono distinti per l’impegno dimostrato sia in campo che fuori, durante il campionato amatoriale a cui hanno partecipato. Per l’occasione, ho contattato il mister della rappresentativa, Mattia Pennacchia, il quale, con una semplice frase, ha saputo riassumere la mission del progetto: “Ci alleniamo con un duplice obiettivo: quello sportivo e quello di favorire l’integrazione, insegnando regole, rispetto e sani principi”.
Realtà come questa, aiutano a capire che la battaglia non è ancora persa, che non è tutto marcio in questo sport. Il calcio può giocare un ruolo decisivo per ragazzi meno fortunati di altri, che l’unica pretesa che hanno è quella di integrarsi al meglio nel contesto in cui vivono.
“Le società, i dirigenti, gli atleti, gli ufficiali e ogni altro soggetto, […] devono comportarsi secondo i principi di lealtà, correttezza e probità in ogni rapporto comunque riferibile all’attività sportiva”. Queste sono parole tratte dal codice di giustizia sportiva della FIGC, parole che troppo spesso vengono dimenticate da chi ogni domenica si reca allo stadio più per sfogare le proprie frustrazioni che per sostenere la propria squadra e che quindi con il calcio, e lo sport tutto, hanno poco a che fare.
Tanti sforzi bisognerà continuare a farli sin dalle basi, dalla scuola (calcio e non solo), dall’insegnamento del rispetto reciproco. In caso contrario, vorrà dire che l’Alzheimer di cui soffre il calcio italiano è inguaribile ed io, di questo calcio, non ne vorrò sapere più nulla.